La Sicilia è una regione autonoma a statuto speciale, parte dell'Italia insulare. È la regione più estesa d'Italia (25.710 km²)[1] nonché la più estesa isola del Mar Mediterraneo, la settima d'Europa, la quarantacinquesima del mondo.

Ha come capoluogo Palermo ed è abitata da oltre 5 milioni di persone: ciò la rende, nonostante le grandi dimensioni, l'isola maggiore più densamente popolata del Mediterraneo dopo Malta. È una delle mete turistiche più importanti d'Italia e nel Settecento era l'ultima tappa del Grand Tour, il viaggio che i giovani aristocratici inglesi compivano in Europa per istruirsi.

Grecia e Albania erano la stessa cosa, finchè in Grecia arrivarono gli slavi.

L'Albania era abitata sin dalla preistoria dai progenitori degli albanesi. Infatti gli Illiri ,una popolazione che occupava un territorio ampio, dal Danubio ai Balcani. Gli Illiri hanno svolto un ruolo di rilievo nelle vicende politiche dell'antico modo mediterraneo.

All'inizio del II millennio a.C., quando erano frequenti le guerre tra tribù. Per questo gli Illiri furono presto costretti ad unirsi in alleanze, tanto che il loro territorio si trasformò presto in uno stato potente.

Dopo varie guerre diventarono un popolo potente.
Verso il 1000 a.c. gli Illiri occuparono il territorio dell'attuale Albania e ne fondarono un regno. Ci sono tantissime parole greche che derivano dall'albanese dialettale.
Alcuni esempi:

Zeus deriva da Zeu(voce) o Zot(dio)
Odisseo(Ulisse)_Odysseus-UDHETUS(viaggiatore).

Basti pensare che in Puglia ci sono ancora resti che approvano l'identità degli illiri che era molto forte.

Nel sud Italia fino a 60 anni fà si credeva che gli albanesi immigrati 500 anni fò fossero greci.
Infatti sembrerebbe che anche la parte delle Grecia fosse abitata da soli albanesi; e successivamente con divisioni si siano divisi in greci e albanesi.

Sono tante queste ipotesi ma oramai la storia l'hanno scritta così.
bisognerà riscrivere la storia per dare l'opportunità all'europa di sapere le proprie origini?


Un commento da un libro.

Nel libro Viaggio in Calabria di H. Swinburne del 1777, si legge: " Mentre guadavamo l'Amato, incontrammo un gruppo di Greci di un villaggio vicino; le donne, vestite con abiti particolarmente vistosi in cui predominava il rosso ed il giallo, erano molto più belle della maggior parte delle Calabresi."

Erano di albanesi. L'ipotesi è attendibile, visto che Vena era il paese più vicino al fiume Amato e che a quel tempo per Greci si intendevano tutte le popolazioni provenienti dall'altra parte dell'Adriatico.

fonte http://turismoinalbania.blogspot.com/2009/01/i-greci-si-vantano-tanto-della-loro.html

Gli Illiri e le verità che si stanno scoprendo.

Gli Illiri e le verità che si stanno scoprendo.
Un nuovo approccio al problema illirica è stata resa possibile dai recenti scavi nella preistoria dei centri illirica in Albania. Gli oggetti scoperti (nella nella regione di Valona, nel sud Albania) sono risalenti alla fine del secondo millennio e dall'inizio del primo millennio aC, ci danno la prova di una continuità tra la civiltà del bronzo e l'Età del Ferro. L'ipotesi che gli Illiri sono stati lì e creato la civiltà del bronzo e che ha acquisito sempre più consistenza. È stato confermato da reperti scoperti nella pianura Pazhok (Elbasan, Albania centrale) sono stati i risultati in parte dalla data 1900-1700 aC, e in parte dal 1400 AC (avanti cristo) .

Sono state trovate ceramiche che sono elementi di prova a favore del carattere essenzialmente degli Illiri,le forme di questi vasi dipinti i motivi geometrici e che si troveranno più tardi sugli oggetti metallici sono tipicamente di carattere espressivo illirico.
Invece per quanto riguarda i Pelasgi, che alcuni scrittori antichi come la citazione molto antichi abitanti del sud dei Balcani e che alcuni studiosi moderni hanno costituito come distanti antenati degli albanesi, che istituisce un legame tra di loro e con la Illiri, e gli albanesi, i loro discendenti.
Si potrebbe dedurre che gli Illiri sono una delle più numerose ed antiche popolazini dell'antica Europa, ha occupato la parte occidentale della penisola balcanica.

Le prime informazioni scritte sul Illiri può essere trovato in Omero. Nel quattordicesimo libro della Iliade, l'Paeonians sono citati come cavalieri che provengono da avere il loro fertili regioni sotto la guida di Asteroups, hanno preso parte alla guerra di Troia. Sempre secondo Omero, Ulisse sbarcati sulle coste fertili del Thesprotians al suo ritorno da Troia, ed è stata accolta con favore dal Phaedon, il loro generoso ed eroico re.

fonte http://turismoinalbania.blogspot.com/2009/03/gli-illiri-e-le-verita-che-si-stanno.html

La lingua Arbëresh e Albanese

La lingua Arbëresh e Albanese
"Arbëresh" è sia la lingua parlata che il nome degli albanesi d' Italia, ovvero di quelle popolazioni che hanno colonizzato soprattutto il meridione d'Italia fin dal 1399. A parte gli elementi innovativi sviluppatesi nel corso della permanenza in Italia, si ritiene che l'Arbëresh sia una varietà del tosco (tosk dialetto parlato nel sud dell'Albania).
Ci sono comunque attestazioni che giustificano inflessioni anche del ghego (geg dialetto parlato nel nord dell'Albania).L'Arbëresh (plurale maschile) ha 6 vocali: a,e,ë,o,i,u. A differenza dell'Albanese comune il sistema vocalico arbëreshe manca del fonema y, che viene rimpiazzato da i.
L' alfabeto è stato normalizzato nel congresso di Monastir Bitola nel 1908, nel quale è stato deciso di accettare l'alfabeto latino. Dal punto di vista del lessico si nota la mancanza di vocaboli per la denominazione di concetti astratti, che nel corso dei secoli sono stati sostituiti con prestiti dell'italiano o con perifrasi.

Differenze tra l' arbëresh e tosco letterario esistono sia in fonologia (cfr. il contrasto breve/lunga tra le vocali) sia in morfologia e nella sintassi. L'arbëresh ha una propria forma del futuro (costruita con ket o kat + te + presente congiuntivo). In molti dialetti arbëreshë (come a Mashito e Ginestra in provincia di Campobasso) esiste una costruzione perifrastica dell'infinito costruito con pet + participio.

Rispetto all'albanese comune, l'arbëresh registra alcune caratteristiche fonologiche proprie che nel sistema consonantico sono le seguenti: c/x, c/xh, s/z, sh/zh, f/v, th/dh, h, hj/j. In molti dialetti arbëreshë c'è una tendenza alla sostituzione di a) gh per ll, come a Piana degli Albanesi, Carfizi ed Eianina; dopo u accentata ll può anche scomparire come a Greci; b) h diventa gh (fricativo) a San Demetrio Corone e Macchia Albanese.

L'evoluzione linguistica

Le parlate arbëreshe, conservatesi ed evolutesi per ben cinquecento anni, hanno avuto contatti diretti e continui tra loro e con le altre parlate della lingua dalle quali si sono distaccate. Esse si presentano come isole linguistiche nel mezzo di un'ambiente linguistico romanzo, e hanno subìto modificazioni varie sia per l'azione dell'italiano sia dei dialetti circostanti. Per tali ragioni, pur mantenendo nella loro struttura fonetica, morfosintattica e lessicale tratti comuni, le parlate arbëreshe registrano variazioni consistenti.
L'enorme influsso dell'italiano e dei dialetti romanzi ha infatti modificato la struttura della lingua.
In morfosintassi ad esempio si assiste alla presenza di costruzioni del futuro con kam + infinito, sul tipo di futuro habeo ad cantare, caratteristico per i dialetti italiani in Puglia, Sicilia, Lucania, Calabria e Abruzzo. Esempi di costruzione sul modello italiano, dapprima in ambito letterario, ma ora attestato anche nella lingua popolare, sono inoltre le costruzioni del passivo per mezzo del verbo vinj "vengo": vjen thritur "viene chiamato".
La forza penetrante dell'italiano si nota anche nella tendenza all' economicità della lingua e della modifica morfologica di numerose forme. Alcuni effetti di notevole portata sono la tendenza alla limitazione della declinazione, con l'uso frequente dei nomi in nominativo invece dell'accusativo; ancora più visibile, è, in
alcuni casi la modifica dell'articolo prepositivo, dove al posto di i, e con dhi (di) italiano.
Ma ciò che caratterizza di più l' arbëresh è il lessico, ed in particolare la mescolanza col vocabolario italiano e dialettale, che si notava già dall'uso di italianismi in Variboba (1724 - 1788). Infatti vi sono parole che esistono solo nelle parlate arbëreshe e che sono per lo più prestiti del greco e dell'italiano dialettale. Esse si presentano con un tema albanese e un suffisso italiano. Nel Dizionario degli Albanesi d'Italia di E. Giordano del 1963, si calcola che solo il 45% dei vocaboli arbëreshë sarebbero in comune con l'albanese, che i neologismi creati dagli scrittori italo-albanesi e passati nell'uso popolare sarebbero circa il 15%. La restante parte del lessico.

Dall'Annuario Generale del Turing Club Italiano si evince, a cura del Sac. Emanuele Giordano, che i paesi albanofani sono 55, con 135.811 abitanti, ed i paesi italofoni sono 40, con 182.182 abitanti.

Ufficialmente non esiste l'insegnamento della lingua Arbëreshe, tranne che per l'esistenza di una cattedra di lingua e letteratura albanese presso il liceo-ginnasio di San Demetrio Corone (CS).

A livello universitario ci sono alcune università dove si insegna lingua e letteratura albanese (Università degli studi della Calabria - Università di Napoli - Università di Bari - Università di Palermo - Università La Sapienza di Roma).

tratto da www.arbitalia.it

http://turismoinalbania.blogspot.com/2009/02/la-lingua-arberesh-e-albanese.html

Le minoranze in Grecia e i Ciam

Le minoranze in Grecia e i Ciam
La popolazione della Ciamuria è costituita soprattutto da Albanesi e Greci, con piccole minoranze. Ci sono dati discordanti riguardo al numero della comunità albanese. Secondo il censimento greco del 1923, gli albanesi in Ciamuria sono 100.000.In base invece a un censimento italiano del periodo fascista, la regione era abitata da 20.000 greci e 54.000 albanesi . Questo censimento italiano causò attrito con il governo greco, che accusò i fascisti di esagerare nel quantificare la presenza albanese.

Oggi i cam vivono soprattutto in Albania, mentre alcuni sono stati trasferiti in Turchia durante gli scambi di popolazione del 1923 tra Grecia e Turchia.

Una buona parte dei albanesi ciamuriati fecero parte dello scambio di popolazioni effettuato tra Grecia e Turchia col trattato di Losanna del 1923, e i restanti 20.000 albanesi-ciamurioti furono vittime della crescente discriminazione del governo di Ioannis Metaxas.
Nel 1943 i cam albanesi vennero espulsi forzatamente dalle loro case in Grecia[senza fonte]. Questo evento, come quello dell'espulsione di 12 milioni di Tedeschi alla fine della guerra sarebbe stato preparato ed ordinato dai comandi degli alleati Britannici ed Americani[senza fonte].

Negli anni '90 si è riaperta una "questione Ciamuria": i discendenti degli espulsi ciamurioti hanno rivendicato diritti sul possesso dei beni lasciati in Grecia e hanno manifestato la volontà di tornare nei territori d'origine. Il governo greco ha respinto la richiesta con la motivazione che durante la Seconda guerra mondiale alcuni ciamurioti (secondo gli odierni rappresentanti poche centinaia , un'esigua minoranza) aveva collaborato con le truppe d'occupazione dell'Asse. Tutte le rivendicazioni avanzate dai cam a partire dagli anni Novanta sono state respinte dal governo greco che considera la confisca delle proprietà degli stessi come bottino di guerra.


Il 10 gennaio 1991 è nato il National Political Association "Çamëria" (in albanese: Shoqëria Politike Atdhetare "Çamëria"), un'associazione che auspica il ritorno dei ciamurioti in Grecia e che rivendica il risarcimento dei beni lasciati nella regione. Il Chameria Political Association (CPA, Associazione Politica Ciamuria) lamenta un numero di 2.800 morti ciamurioti e oltre 35.000 espulsi, anche se questi dati non sono affatto verificabili; storici quali Victor Roudometof e Mark Mazower stimano il numero di espulsi in 18.000. I cam odierni sono prevalentemente mussulmani con una minoranza di Cristiani ortodossi. Ad oggi la popolazione cam di origine albanese, compresi i discendenti nati fuori della Cameria, ammonta a circa 600 mila persone. Oggi la popolazione di origine albanese e di lingua albanese in Ciamuria è in diminuizione, anche se ancora vi si trovano alcune comunità.

http://macedoniatour.blogspot.com/2009/05/le-minoranze-in-grecia.html

IL CASTELLO DEI CONTI E LE FORTIFICAZIONI A MODICA

IL CASTELLO DEI CONTI E LE FORTIFICAZIONI


Il Castello dei Conti di Modica è il simbolo visivo della città. Posto sulla sommità di uno sperone roccioso ha costituito per secoli un vero e proprio monito per i nemici, una difesa naturale per la Capitale della Contea. La frammentaria documentazione finora aquisita per la rocca del Castello non consente di poter formulare un quadro insediamentale completo nel corso della storia locale.



Si può avanzare l’ipotesi di una frequentazione di quest’area già in epoca preistorica, nella prima età del bronzo (facies di Castelluccio XXII - metà del XV secolo a.C.) quando evidenze archeologiche testimoniano la presenza di un insediamento nella vallate del Pozzo dei Pruni, l’insediamento è confermato anche per l’età protostorica, nel VII secolo a.C., dalle due tombe con corredi funerari ritrovate in Via Polara. Per i periodi successivi i dati risultano fortemente carenti, tuttavia la frequentazione della rocca in età tardo antica può essere individuata per la presenza di ipogei funerari ricavati lungo i versanti orientale e occidentale. In un momento successivo la necropoli venne abbandonata e la rocca assunse il ruolo di fortezza del centro abitato. Molto probabilmente l’occasione storica per questa trasformazione fu fornita, verso la fine del VII secolo d.C. dalla fortificazione del territorio in seguito alla creazione del Thema di Sicilia in epoca bizantina, quando la Sicilia divenne una provincia militarizzata dell’impero bizantino. La parola thema che in greco bizantino vuol dire corpo d’armata fa riferimento ai reggimenti di stanza permanente in alcuni distretti. Prima della rovina causata dal terremoto del 1693, con la successiva asportazione di materiali, l’ostruzione delle grotte e la costruzione di edifici nell’area del Castello e sulle fondamenta delle torri, l’unica descrizione dell’area ci è fornita da Placido Carrafa, storico modicano.

Il Carrafa descrive il Castello come un ragguardevole edificio per la sua ampiezza e per la “vetustà della sue mura”. Racconta dell’esistenza della casa del Governatore della Contea di Modica e di molte altre case di paesani al servizio dei quali stavano tre chiese. La prima era quella sotto il nome della Vergine Maria con dodici preti al sevizio del Conte con il compito di amministrare i Sacramenti. Le altre due chiese erano intitolate a San Cataldo e di San Leonardo. Quest’ultima era la chiesa dei prigionieri che erano custoditi nelle carceri del Castello. Il Carrafa si riferisce nella descrizione di un epoca passata ad un Tempio del Sole o di Apolline, di forma quadrata. All’interno del tempio si ergeva una cappella anch’essa di forma quadrata dove, si narra, un tempo era posto il sacello del Dio che “proferiva le sorti e i futuri destini di coloro che ne chiedano i vaticini, non meno autorevoli, presso i nostri credenti di quelli del Delfico Apolline (il Dio Apollo di Delfi)”. Lo storico continua dicendo che “Si è ritrovato presso l’ara un piccolo fonte di pietra rotto che noi opiniamo destinato per lo lavacro del sacerdote del tempio, leggendo in antichi libri esser costume religioso la lustrazione delle mani del sacro ministro”.
A quanto pare il tempio del Dio doveva essere molto ricco se, come ci viene riportato, all’interno risplendeva di oro purissimo.
Fuori dal castello sacro al Sole forti mura difendevano Modica munite di porte. Una di queste situata ad oriente era chiamata Porta d’Anselmo, un’altra porta era posta verso Mezzogiorno sopra la Chiesa di San Pietro. Le mura che difendevano la città erano munite di spesse Torri.

Il Castello dei Conti, così come si presenta ad oggi, è il frutto di una massiccia ricostruzione che ha interressato le sue strutture non solo dopo il terremoto, ma, soprattutto, dopo il 1779. Il progetto per la ricostruzione della abitazione dell’allora Governatore della Contea fu realizzato dal magistrum Ignazio Scifo. Nel nuovo progetto il palazzo viene ad occupare quasi per esteso l’area settentrionale della rocca, doveva essere affiancato alla chiesa e posto di fronte alla Concelleria.
Il portale d’ingresso che immetteva nell’atrio era particolarmente curato. Nell’atrio era prevista una pavimentazione con basole di pietra quadrate poste a scacchiera di colore nero e bianco, con una scala pavimentata in lastre di pietra pece nera che si sviluppava intorno ad un colonnato con capitelli.
Dalla scala si accedeva alla casa del Governatore che era formata da undici stanze, compresa di cucina e anticucina con una cisterna. I soffitti erano realizzati in canne e gesso e pavimentate con pietra di Scicli, il camerone era pavimentato con mattoni di Valenza. Le stanze erano sostenute da undici dammusi le cui fondamenta poggiavano sulla rocca. Ogni stanza doveva avere un balcone sostenuto da mensole decorate o con motivi antropomorfi. Lungo tutti i quattro lati del Palazzo correva un cornicione di ordine corinzio.
La Cancelleria, formata da una saletta d’ingresso e da tre camere, una delle quali era adibita ad archivio per l’ingente mole di documenti prodotta nel corso dei decenni, era ubicata sul versante orientale dello sperone roccioso.Sul cortile inferiore si affacciava la residenza del castellano. Sotto la cucina di questa residenze era ubicata la sede degli alabardiereri e, a lato, una cappella (San Leonardo?). In fase di ricostruzione si provvide anche all’adeguamento delle carceri distinte in carceri criminali, civili, per donne, galantuomini e fosse, nel 1825 fu aggiunto un carcere destinato alla detenzione degli ecclesiastici regolari o secolari. Nel medesimo cortile inferiore, oltre alle carceri, alla casa del castellano, alla sede degli alabardieri e alla cappella si affacciavano la camera di subizione (dove venivano custoditi cautelativamente i testimoni di rilievo per i processi) e la casa del boja.

Schematizzando la distribuzione degli insediamenti nell’area dello sperone roccioso lungo 230 m. e largo 30 m. possiamo distinguere, al di sotto della abitazione del Governatore collocata nella parte settentrionale, un cortile superiore e uno inferiore. Nel cortile superiore si collocavano i locali amministrativi: cancelleria e archivio e la Chiesa di San Cataldo. La parte meriodionale dello sperone roccioso era occupata da quello che, in senso stretto, viene definito come Castello, ossia come fortilizio militare oltre che carcere (casa del castellano, stanza delle guardie, casa del boja, camera di subizione e carceri). Il cortile superiore era in collegamento con quello inferiore tramite una scala che passava sotto il camerone della cancelleria (grazie a questa scala si era creato un percorso diretto con uno dei luoghi della tortura posto a oriente della rocca). All’area meridionale della rocca si poteva accedere anche attraverso una scale posta lungo la strada pubblica e che immetteva direttamente al piano del cortile inferiore.

A margine delle testimonianze fornite dal Carrafa e alle relazioni relative alla ricostruzione di fine Settecento, una precisazione va fatta. Con il temine rocca non va intesa solamente una emergenza fisica ma una fortificazione avente una complessa tipologia con permanenza sia di forze armate, sia, specie dal XIV secolo, ma gia in precedenza con Federico II, della residenza del Signore, oltre a cappelle, magazzini e prigioni. Non mancava a Modica un giardino e un frutteto di federiciano riferimento.

La difesa del territorio non era affidata esclusivamente al Castello. Presidi e attrezzati punti di riferimento per i commerci marittimi erano le grandi torri sui caricatoi o scari a mare. Di esse, più rilevante, nella Contea di Modica, “l’ingens et magnifica” torre di Pozzallo. Dal Caricatoio di Pozzallo i Conti di Modica esportavano le 12.000 salme di frumento che provenivano dal canone che i sudditi pagavano per le terre concesse in enfiteusi e che i Conti avevano il privilegio di esportare in franchigia.

Componente del sistema erano i fani ossia quelle alte costruzioni cilindriche che, situate in luoghi elevati e secondo una direzione coordinata, avevano la funzione di trasmissione di segnali visivi. Uno di questo è ancora visibile a Modica nel quartiere Dente (O’ Renti , Oriente).

FONTE : http://www.modica.it/turismo_castello_dei_conti.htm

Modica in Sicilia

Il nome di Modica, fatte poche e frammentarie eccezioni, è sconosciuto alle fonti greche classiche e ai frammenti letterari degli antichi topografi siciliani.
I primi ricordi storici risalgono all’epoca romana. Silio Italico, dovendo fare l’elenco delle città ribelli a Roma dopo l’eccidio di Siracusa (212 a.C.), svela il nome di Modica in un verso “Et Netum et Muthyce pubesque liquentis Achatis”.



Cicereone è il primo a fornirci la prima pagina documentata della storia antica della città nel processo, in difesa dei Siciliani, contro Verre, il cattivissimo governatore passato alla storia per le sue malversazioni.
Secondo la sua autorevole testimonianza, Mothyce, nell’anno 73 a.C. era uno di quei 34 comuni della Sicilia cui era imposto ogni anno l’obbligo di fornire a Roma la decima parte dei prodotti agricoli e contava, all’epoca, 187 aratores.

Dopo il processo a Verre, per molti secoli, si perde della città qualsiasi traccia, Plinio e Tolomeo sono gli unici scrittori del periodo romano cesareo che ne ricordano il nome. Da Plinio il Vecchio si apprende che Mothyca, in epoca imperiale, era una città stipendiaria, soggetta come la vicina Hybla (Ragusa Inferiore e Ragusa Antica) al pagamento di un tributo stabile. Da Tolomeo si ha invece la prima notizia della posizione astronomica del distretto e della foce del torrente.

Ci si chiede, tuttavia, fin dove possiamo tornare indietro nel tempo per ricostruire la storia della città di Modica e quali sono le testimonianze anteriori all’età romana.

Modica, così come gli altri centri degli Iblei, gravitava nell’area della civiltà dei Siculi. Ad usare il temine Siculi (Sikeloi) furono gli stessi Greci che, quando arrivarono per la prima volta sulle coste siciliane nel 740 a.C. circa, nella prima ondata della colonizzazione, trovarono l’isola abitata da tre popoli: i Siculi nell’area orientale, i Sicani in quella centro-occidentale e gli Elimi in quella occidentale.

Il quadro più completo della situazione viene fornito da Tucidide (V sec. a.C.) che, nel VI libro della Storia della Guerra del Peloponneso, ricostruisce la successione dei popoli che occupavano la Sicilia al tempo della prima ondata di coloni provenienti dalla penisola Greca.
Delle popolazioni Sicule parla anche Dionigi di Alicarnasso alla fine del I sec. a.C. nella sua Archeologia Romana e, contemporaneamente, lo storico Diodoro Siculo, nativo di Agira, nella sua opera intitolata la Bibilioteca.

I problemi connessi all’interpretazione di queste notizie sono molteplici e riguardano, innanzitutto, le fonti a cui attinsero gli storici greci e le manipolazioni a cui le notizie stesse furono soggette per giustificare e favorire interressi ben precisi.
Molti dati di fatto sembrano, ad oggi, assodati e tra questi la collocazione geografica dei Siculi che occupavano la parte orientale dell’isola. Inoltre l’indagine archeologica ha confermato questa situazione.

Il popolamento del territorio modicano è da far risalire all’eneolitico (3200-2200 a.C.) A meno di 15 Km da dove sorse, in seguito, l’attuale città di Modica, i Siculi del periodo Eneolitico (3200 a.C.) estraevano, senza il sussidio di strumenti metallici, la SELCE necessaria a foggiare coltelli, cuspidi, arnesi dalla miniera di Monte Tabuto, una delle più antiche in Sicilia.
L’eneolitico e il periodo seguente (Età del Bronzo Antica) ci sono noti quasi esclusivamente per i reperti rinvenuti e per la presenza di numerose necropoli.
Se vi è un territorio in Sicilia davvero ricco di necropoli è indubbiamente il modicano. La presenza di questa tipologia funeraria, riutilizzata nel corso dei secoli anche tramite riadattamenti, conferisce a questi luoghi l’aspetto di veri e propri alveari di pietra lungo i fianchi della alture.
Tuttavia, nonostante la presenza di una importante civiltà come quella dei Siculi, le testimonianze archeologiche relative alla città di Modica sono frammentarie e discontinue dal momento che, l’insistenza dell’attuale abitato su quello antico e i continui interventi di manomissione e riadattamenti dell’edilizia, hanno reso difficoltoso il ritrovamento nonché la conservazione degli avanzi più antichi.

Le evidenze archeologiche più antiche sono da riferire all’Antica età del Bronzo (2200-1400 a.C., un’epoca contraddistinta dalla facies di Castelluccio) e si tratta di necropoli documentate soprattutto nella vallata del Torrente Pozzo dei Pruni, nel versante occidentale. (La cultura di Castelluccio deriva il suo nome da un insediamento nei pressi di Noto scoperto dall’archeologo Paolo Orsi. Tra gli elementi distintivi di Castelluccio vi sono un particolare tipo di tomba, scavato nella roccia e denominato a grotticella artificiale e l’uso di vasi di ceramica, plasmati a mano, verniciati di rosso e dipinti con motivi geometrici color nero o bruno). Attualmente il gruppo più cospicuo di tombe, superstite alle cave di pietra e ai moderni edifici, si trova nella zona del Quartiriccio: se ne contano circa una trentina, presentano una pianta ovale o circolare, a volte sono precedute da una anticella. Altre tombe apparentemente più isolate, perché più intensa è stata l’attività edilizia, si trovano lungo la via Santa Venera e presso l’omonima chiesa rupestre, riadattata in età tardoromana con loculi scavati nel piano di deposizione.

Ad età preistorica sono da riferirsi altri reperti rinvenuti nella vallata presso la fontana di San Pancrazio. Nel 1878, nel corso di lavori stradali, furono recuperati numerosi manufatti soprattutto di industria litica: macine in pietra lavica, strumenti e schegge di ossidiana e selce. Si erano trovati anche molti frammenti fittili, ora dispersi, che presentavano una decorazione a segni neri geometrici su fondo rosso, un tipo inquadrabile all’interno della cultura materiale del periodo castellucciano.

Un altro insediamento di età preistorica è documentato all’altro capo della città, nell’altura di Monserrato dove, nella scarpata sottostante, furono ritrovate delle tombe a forno in molti casi ampliate e riutilizzate dall’insediamento trogloditico medievale.

Al periodo compreso tra la tarda età del bronzo e l’età del ferro (1200-1100 a.C.) si può assegnare la necropoli di Contrada Mista nel versante orientale della vallata del Pozzo dei Pruni. La situazione era già compromessa all’inizio del XX secolo a causa delle estrazioni in una cava di pietra e la situazione peggiorò di pari passo con l’espansione edilizia comportando la distruzione di circa trenta del centinaio di tombe a grotticella artificiale. Se, inizialmente, le tombe furono assegnate al primo periodo siculo, corrispondente al castellucciano, di fatto, alla luce di più approfondite ricerche, presentano caratteri che riportano a una età successiva: si trovano infatti tombe a pianta ellittica con ingresso trapezoidale “monumentalizzato” da una triplice cornice e tombe con pianta quadrangolare con soffitto piano e con la banchina laterale preceduta da un vestibolo.

Sul lato di ponente nel 1925 vennero rinvenute due tombe molto ricche, i corredi consistono infatti di più di trenta vasi e monili in bronzo e in ferro, vasellame di vario tipo con decorazioni di tipo geometrico, incise o dipinte.

Per l’età classica (VI-V sec. a.C.) non si possiedono ancora molte testimonianze fatta eccezione per quelle di contrada ORETO (O’RITU) nella CHORA settentrionale (la chora è il territorio che circonda il centro abitato). Le testimonianze si infittiscono durante il periodo ellenistico (III sec. a.C.) sia nel territorio che nel centro urbano. Un importante ritrovamento fu quello del 1914, durante i lavori nell’alveo del torrente Ianni Mauro, di una statua equestre in bronzo. La statua fu datata dall’archeologo Paolo Orsi all’età ellenistico romana. Recentemente, lungo i fianchi dello sperone del Castello sono stare scoperte e illustrate delle necropoli ipogeiche di fondamentale importanza per la definizione delle topografia antica di Modica

Nel versante orientale si ha la maggiore concentrazione dei sepolcri distribuiti all’esterno dell’abitato e lungo il percorso che dalla rocca scende verso il fondovalle. Il nucleo più cospicuo è dato da tre ampi ipogei ubicati sotto il grande muro del giardino settentrionale del Castello e tracce di un piccolo ipogeo restano, a un livello inferiore, tutti purtroppo devastati sia da crolli che dalla utilizzazione come cave per l’estrazione delle pietre.
Al loro interno, tuttavia, è ancora possibile distinguere una varia tipologia sepolcrale con loculi a pila, arcosoli monosomi, polisomi e baldacchini.
Minori sono i resti della necropoli del versante occidentale dello sperone del Castello; il resto è stato tutto devastato dall’insediamento rupestre e lo sbancamento per l’apertura della porta di Oriente del Castello, nella prima metà del XII secolo, ha comportato l’attuale isolamento in posizione elevata nella parete di roccia.

Nelle zone immediatamente limitrofe all’attuale centro urbano, in età romana vi fu una notevole occupazione dell’agro modicano con borgate e villaggi che si conoscono soltanto sulla base delle necropoli relative, in genere ipogei o tombe a fossa.

fonte : http://www.modica.it/storia_preistoria.htm

Il mare e le isole.

Il mare e le isole.
Gemme incastonate in un liquido zaffiro.


Lacrime laviche, piane calcaree battute dal vento, lande assolate colore del bronzo:ognuna delle isole orna il litorale siciliano come un filo di perle orna il collo di una bella donna. Sono quattordici le figlie della Sicilia, per non parlare di Mozia che a volte la bassa marea unisce alla costa di Marsala. Quattordici paradisi d’incontaminata bellezza. Alcune dal fascino africano, come le Pelagie, in provincia di Agrigento, e Pantelleria in provincia di Trapani. Altre, invece, signore incontrastate del mare e dei suoi segreti come Levanzo, Favignana e Marettimo:l’arcipelago delle Egadi nel mare di Trapani. Più a nord, in splendido isolamento, si trova Ustica, l’Isola di Circe, con la sua intatta riserva marina. Mentre nelle Eolie, in provincia di Messina, si danno convegno l’acqua e il fuoco. Qui, insomma, è ancora la natura che detta i suoi ritmi e al viaggiatore non resta che lasciarsi ammaliare dalle magiche atmosfere dei pescatori e degli agricoltori isolani, ultimi custodi di antiche tradizioni mediterranee. A voi la scelta fra le mondanità eoliane, i silenzi delle Pelagie o i profumi delle Egadi.

Il mare è sempre colore dello zaffiro, attraversato da delfini e pescispada. Da sempre.
fonte : http://www.regione.sicilia.it/turismo/web_turismo/sicilia/it/mare_index.html

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